L'idea sembra plausibile ed è fondata, oltre che sulla verosimile rilettura della citata parola dell'epitaffio della Cilnei
(forse da intendere come aritimax 'aretino'), anche sulla brillante soluzione suggerita per il difficile testo epigrafico votivo OB 3.2
(inciso su una statuetta bronzea del IV secolo a.C.): mifleres spulare (così per
spurale) aritimi 'io (sono) del nume (che è) nella città di Arezzo'. Quanto alla sequenza arcaica aritimipi turanpi di Ve 3.34 (VI secolo
a.C.), in aritimi pare comunque ancora meglio riconoscibile il nome di una divinità
(Artemide?), vista la parallela ricorrenza del nome di Turan (Venere-Afrodite). Le fonti letterarie ci forniscono riferimenti abbastanza numerosi alle vicende dell' Arezzo
etrusca. Una delle più antiche menzioni è ricavabile da Dionigi di Alicarnasso
(Antichità Romane, 3,51 sgg.), secondo il quale un gruppo di città etrusche, precisamente
«Chiusini, Arretini, Volterrani, Rosellani e inoltre Vetuloniesi», promise e inviò contingenti in aiuto ai Latini che si erano coalizzati per bloccare le mire espansionistiche del re di Roma Lucio Tarquinio Prisco (616- 579
a.C.). Quest'ultimo, dopo le vittorie già ottenute sui Latini, di cui prese diversi
oppida, sarebbe riuscito vincitore anche sulle forze congiunte etrusco-latine (l.c., 3, 53). Dai frammenti dei fasti trionfali di Roma sappiamo che Tarquinio Prisco celebrò il suo primo
trionfo, de Latineis, il primo giorno del mese di quintile (luglio) di un anno compreso tra il 598 e il 595
a.C.; il secondo trionfo (datato al primo di aprile del 588 a.C.) fu proprio de Etrusceis ed è
così, indubitabilmente, riferito agli avvenimenti narrati da Dionigi. Veramente dai dati archeologici risulterebbe che ad Arezzo il processo di urbanizzazione sia stato abbastanza
tardivo, rispetto a quello degli altri centri maggiori dell'Etruria.
I reperti più risalenti, datati alla prima metà del VI secolo a.C., non permettono di intravedere un' importante città etrusca per l'epoca
arcaica, quanto piuttosto un insediamento agricolo non molto grande inserito presumibilmente nell'area di influenza dell'allora già potente città di
Chiusi. Sembra perciò verosimile che Arezzo possa essere stata inclusa nell'elenco delle dodici città più importanti d'Etruria solo in epoca successiva alla sua
fioritura, che avvenne gradatamente tra il V il IV secolo a.C. La notizia di Dionigi di
Alicarnasso, derivata, come la sua datazione (588 a.C. ca.), dalle fonti annalistiche
romane, sembrerebbe dunque da rivedere come un'interpolazione (almeno per quanto concerne la partecipazione di Arezzo), anche se non si può escludere la possibilità che il passo celi un indizio degli esordi di un'acquisizione di autonomia da Chiusi dell'ancora modesto centro di Arezzo
(nell'elenco di Dionigi gli Aretini sono menzionati subito dopo i Chiusini).
La stessa posizione strategica di Arezzo, all' incrocio di itinerari particolarmente battuti e in collegamento con i principali insediamenti del Nord, non osteggia l'idea di una precoce crescita di importanza del
centro, già nel VI secolo a.C. Le notizie tramandataci sugli antenati di Mecenate (C. Maecenas L. f. C. n.) sono una valida testimonianza del fatto che Arezzo conobbe un periodo
regio, presumibilmente perdurante nel V forse fino agli inizi del IV secolo a.C. Anche se, come ha ben mostrato lo Schulze, è ormai certo che Maecenas era un gentilizio
(femm. Maecenatia) e non un cognomen, sappiamo comunque che il famoso amico e collaboratore di Augusto
apparteneva, per parte di madre, alla più nobile famiglia etrusca di Arezzo (i
Cilnii, appunto: Tacito negli Annales lo chiama Gaius Maecenas o anche Cilnius Maecenas). E’ noto altresì che l'albero genealogico di Mecenate era esposto nell'atrio della sua villa
sull'Esquilino; d'altronde sia Orazio che Properzio hanno celebrato il loro intelligente benefattore come
«più nobile degli Etruschi» (Lydorum quidquid Etruscos / incoluit finis nemo generosior est
te); «stirpe dei re tirreni» (Tyrrhena regum progenies); «cavaliere del sangue dei re
etruschi» (eques Etrusco de sanguine regum). E’ anche famoso un brano delle Satire oraziane ( I, 6, 3-4) in cui si afferma che gli antenati materni e paterni di Mecenate un tempo comandarono grandi eserciti
(avus tibi matemus fuit atque patemus / olim qui magnis legionis imperitarent); riguardo a questi versi si è dato un soverchio rilievo al fatto che matemus preceda patemus (con le solite speculazioni sul preteso matriarcato
etrusco), senza tener conto di ben più semplici spiegazioni, come le esigenze metriche (la a lunga di
matemus). Dunque si ha l'attestazione di come i Cilnii (etr. Cilnie, femminile
Cilnei) abbiano un tempo regnato ad Arezzo, forse nell'ambito di un sistema di successione di tipo
dinastico.
Nel 1989 Augusto Campana e Adriano Maggiani hanno pubblicato l'apografo cinquecentesco di un'interessante epigrafe oggi
perduta: l'epitaffio di Larthi Cilnei. Dalle parti dell'iscrizione che non pongono problemi di lettura e di interpretazione si ricava che essa si riferiva a una nobile donna di nome Larthi
Cilnei, figlia di Luvchumes Cilnie, morta all'età di 83 anni (/upum avi/s lXXX/II), essendo stata moglie di Arnth Spurina per 14
anni. Il testo, verosimilmente della fine del IV secolo a.C., è di rimarchevole
importanza, non solo per la lunghezza. ma anche per i dati che ci fornisce su questa appartenente alla gens aretina dei
Cilnii, che risulta aver sposato uno Spurina (lat. Spurinna), un membro cioè di una delle principali famiglie tarquiniesi
(forse la principale) di quel periodo.
Dopo la fase monarchica la città deve aver conosciuto, nel IV secolo a.C., l'instaurazione di un regime
oligarchico, analogo a quello delle altre città-stato etrusche. Un numero ristretto di famiglie di principes o domini
(tra cui primeggiava ancora la gens Cilnia), grandi proprietari terrieri, detenevano tutto il
potere, con l'accesso alle nuove magistrature "repubblicane", da cui restava certamente esclusa la classe sociale
inferiore, i cui componenti sono designati dalle fonti romane col termine improprio di servi
(cioè 'schiavi'). In realtà si cercava di rendere in latino un termine etrusco
(probabilmente etera) che indicava persone dotate dei diritti di libertà e di
cittadinanza, ma non nobili.
Essi non erano dunque schiavi, ma costituivano il vasto insieme della classe
subaltema: in effetti, pur godendo di condizioni giuridiche sicuramente migliori di quelle di uno
schiavo, tuttavia le limitazioni della capacità di diritto pubblico e privato (tra cui l'esclusione dall'esercizio delle cariche pubbliche e dal connubio con le classi
agiate) e la loro materiale dipendenza dai domini, in quanto lavoratori subordinati
(legati da vincoli clientelari molto stretti), li rendeva, agli occhi dei Romani, più simili a schiavi che a
liberi. Dionigi di Alicarnasso con maggiore finezza usa il termine greco penestai
(parola che etimologicamente significa 'poveri' e che in Tessaglia indicava una classe intermedia tra liberi e
schiavi). Tra le due classi dei domini e dei servi etruschi si svilupparono, almeno dalla metà del IV secolo
a.C., forti contrasti e frizioni, paragonabili alle lotte tra patrizi e plebei a Roma. Nelle singole città-stato etrusche lo scontro conobbe comunque dinamiche
differenti. Ad Arezzo, a quanto pare, non si perseguì la soluzione di questi conflitti attraverso una serie di graduali concessioni alla classe
inferiore, preferendo probabilmente la "linea dura" di un arroccamento del ceto aristocratico nei suoi
privilegi. Si ha notizia di diverse rivolte dei ceti inferiori, tutte soppresse tramite l'intervento di eserciti
esterni, evidentemente chiamati dalla nobiltà aretina. Un primo moto di ribellione dev'essere quello ricordato nell'elogio in latino di Aulus Spurinna
(etr. Aule Spurinas), che rivestì tre volte la magistratura suprema di Tarquinia
(cioè fu zilath); l'intervento dell'esercito tarquiniese a sedare il bellum servile di Arezzo deve essere datato attorno al 358
a.C., o poco dopo, restando complessivamente valide le posizioni interpretative di Mario Torelli sugli
Spurinna.
In questo periodo Tarquinia era in effetti la città etrusca egemone e 1'oligarchia aretina riconosceva palesemente questo ruolo
guida, chiedendo l'aiuto delle armi tarquiniesi per bloccare rivolgimenti non tollerabili degli equilibri
politico-sociali. Il matrimonio sopra ricordato tra LaIthi Cilnei e Arnth Spurina è una prova tangibile dell'alleanza delle aristocrazie di Arezzo e di
Tarquinia. Secondo Tito Livio nel 311 a.C. tutti i popoli d'Etruria, tranne gli
Aretini, presero le armi e posero l'assedio a Sutri, già città etrusca, ma allora colonia romana
(dal 383 a.C.). Si trattò di una guerra di grosse proporzioni per il controllo di quella città che era una sorta di
"ingresso dell'Etruria". Dopo una serie di scontri che si protrassero per qualche tempo, nel 310 i Romani inflissero una pesante sconfitta alle truppe etrusche
(si parla addirittura di sessantamila nemici uccisi o fatti prigionieri), riuscendo a penetrare profondamente nell'Etruria centrale e
interna. Subito dopo da Perugia (in cui nell'anno successivo fu lasciato un presidio
romano), Cortona e Arezzo, che a quel tempo erano come le capitali dei popoli
d'Etruria, furono inviati ambasciatori a Roma con richieste di pace; fu concessa una tregua
trentennale.
Comunque si è notato che Arezzo non doveva aver partecipato direttamente alla spedizione
militare. La politica filoromana degli oligarchi aretini (la potenza di Tarquinia era ormai in fase declinante e comunque si avvertiva più vicina la presenza di Roma) traspare anche dalle vicende della rivolta servile del 302
a.C. In quell'anno, scrive Livio, scoppiò ad Arezzo un'insurrezione contro l'influente famiglia dei Cilnii
che, odiata per le sue enormi ricchezze, stava per essere scacciata dalla città. I disordini si propagarono ad altre zone dell'Etruria (Roselle); il dittatore Marco Valerio Massimo
riuscì, ad ogni modo, nel 301 a.C. a riconciliare la plebe aretina con i Cilnii. Nel 294
a.C., alla fine di una serie di scontri tra Roma e una coalizione
gallo-etrusco-sannita, tre città «potentissime, tra le più in vista
dell'Etruria», cioè Volsinii, Perugia e Arezzo, ottennero una tregua quarantennale e un trattato di
alleanza, essendo però comminata a ciascuna di loro un'ammenda di cinquecentornila
assi, per la parte che avevano avuto nella recente guerra.
Polibio racconta che dieci anni dopo questi fatti, nel 284 a.C., un'armata di Galli Senoni sopraggiunse per assediare la città di Arezzo e i Romani accorsero subito in
aiuto, ma subirono una grave disfatta, in cui lo stesso console Lucio Cecilio Metello Denter sarebbe rimasto
ucciso. I Galli furono comunque respinti dopo una serie di scontri immediatamente
successivi. L'anno seguente (283 a.C.) presso il lago Vadimone si svolse una battaglia decisiva per le sorti
dell'Etruria, in cui una coalizione gallo-etrusca fu sbaragliata dai Romani. Sembra da escludere che tra i contingenti etruschi schierati contro Roma nella battaglia del
Vadimone, e guidati con ogni verosimiglianza dai Volsiniesi, ci fossero degli
Aretini, dato che, come si è visto poco sopra, tra le classi dominanti di Arezzo prevaleva ormai una politica
filoromana. Durante la seconda guerra punica, nel 217 a.C., il console romano Gaio Flaminio Nepote aveva posto il campo nei pressi di Arezzo, poco prima di cedere alle provocazioni di Annibale cadendo nella trappola della rovinosissima battaglia del lago Trasimeno.
Nel 209 il propretore d'Etruria Gaio Calpurnio Pisone segnalò allarmato il rischio che una rivolta generale di tutti gli Etruschi potesse essere innescata da una sollevazione della popolazione di Arezzo, ma le minacce di un intervento armato bastarono a riportare la situazione alla
normalità. Sappiamo che Pisone era a capo di un esercito composto da due
legioni, di cui una almeno era dislocata nei pressi di Arezzo, dove, nel 208 a.C., egli consegnò il controllo della provincia al suo successore Gaio Ostilio
Tubulo, che pure non mosse il campo. Come dimostra la particolare attenzione dei governatori
romani, Arezzo in questo periodo doveva essere la più influente città dell'Etruria ormai in
declino. I tentativi di ribellione dovettero coinvolgere anche i maggiorenti (che forse cominciavano a vedere in Annibale il nuovo padrone
d'Italia) e assumere una portata preoccupante, al punto che da Roma fu inviato a Ostilio Tubulo l'ordine di farsi consegnare dagli Aretini degli
ostaggi. La legione accampata presso Arezzo fu fatta entrare nella città per disporre dei
presidi; si convocò il senato aretino imponendo la consegna degli ostaggi. Dopo alcuni indugi che permisero la fuga di sette dei principali senatori con i figli
(i loro beni furono subito confiscati e messi all'asta), si stabilì di consegnare centoventi ostaggi scelti tra i figli dei senatori
rimasti. Essi furono condotti a Roma da Gaio Terenzio Varrone (l'ex console, superstite della battaglia di Canne del 216
a.C.), che poco dopo fu rimandato ad Arezzo con un' altra legione, mentre Ostilio Tubulo con gli altri soldati percorreva tutta l'Etruria per
sorvegliarla.
Nel 205 a.C. varie città etrusche si impegnarono a fornire aiuti al console Publio Cornelio Scipione (poi
"Africano") per la costruzione di una flotta contro Annibale. Tra le varie prestazioni
fornite, descritte dettagliatamente da Livio, spicca il contributo "volontario" di Arezzo, sproporzionatamente più grande di tutti gli
altri. Nel fatto si può leggere la maggiore potenza economica della città rispetto agli altri centri etruschi
dell'epoca, oppure la manifestazione di un intento punitivo particolarmente pesante da parte di Roma, dopo le vicende del 209-208
a.C., oppure entrambe le cose. Arezzo godeva certamente dei diritti di municipio all'epoca della guerra
civile, quando, essendosi schierata con Mario, dovette sopportare la deduzione di una colonia di veterani sillani
(detti Arretini fidentiores, rispetto agli Arretini veteres, ossia l'antica popolazione
etrusca).
Nel 63 a.C., durante il tentativo di colpo di stato, Catilina raccolse truppe anche tra Aretini (specie tra
ifidentiores) e Fiesolani. Nel corso della seconda guerra civile Arezzo si trovò dalla parte di Pompeo e perciò Cesare vi dedusse per punizione una seconda colonia di veterani
(Arretini Iulienses). Nella prima età imperiale i cittadini romani di Arezzo risultano assegnati alla tribù
Pomptina; si tratta di un periodo molto florido, in cui la città è rinomata (come già dal I secolo
a.C.) per l'industria della sua argilla (l'argilla aretina, appunto, o "terra
sigillata", una ceramica molto fine di color rosso corallo), la fertilità della
campagna, le cave di pietra e l'ottimo legname. La fortunata posizione sulla via Cassia favorisce questa tendenza di
sviluppo. Nel Foro di Arezzo (sito presso il Duomo attuale) si era riprodotto il Foro di Augusto di Roma. Vari senatori romani appartengono ad antiche famiglie
aretine, di origine etrusca, o coloniale, come i Cilnii, i Ciartii, i Martii e gli
Avilii. Tuttavia nel il secolo d.C. comincia per Arezzo una fase di declino, accentuatasi anche nell'epoca
tardo-antica. Tra le cause principali della decadenza del centro si distinguono il nuovo percorso della via Cassia e il trasferimento delle officine di ceramica in altre province. La città riacquistò prestigio soltanto nel
Medioevo.
L'antica Arezzo, sorta sulle colline prospicienti la valle del Clanis, era considerata da Strabone la città etrusca più
interna. Per la sua posizione, essa costituiva il centro naturale della popolazione agricola sparsa nella fertile Val di Chiana e
nacque, forse come avamposto di Chiusi, nel momento della massima espansione etrusca verso Nord (VI se.
a.C.).
La città d'origine etrusco romana è, per lo più, visibile nei tracciati e negli allineamenti dell'antico tessuto che sono stati conservati nei secoli dal sovrapporsi degli elementi edilizi con la sola eccezione dei grandi cambiamenti strutturali che hanno toccato l'area cacuminale della
città, oggi occupata dal Prato e dalla limitrofa Fortezza sangallesca, ed i comparti corrispondenti ai quartieri meridionali
pedecollinari, completamente rivoluzionati dalla crescita urbana moderna. Già la città etrusca subì radicali cambiamenti ed una completa romanizzazione tra il I sec.
a.C. e il I sec. d.C. quando prese forma la urbs nova che modificava l'assetto
preesistente, imponendo le rigorose regole dell'organizzazione urbana e civica del mondo
romano. La civitas rifondata dai coloni romani era strutturata in un ampio scacchiere composto da oltre cinquanta insulae a testimoniare l'ampiezza del suo sviluppo
urbano, con ville extra moenia, impianti termali entro e fuori il recinto
fortificato, con il grande anfiteatro posto fuori città al di là del torrente Castro
che, per l'appunto, in quei pressi lambiva l'angolo meridionale del rettangolo
urbano.
La città era adagiata a partire dalla sommità dei colli, poi dedicati a S. Donato e S.
Pietro, dove oggi sono la Fortezza e la Cattedrale, con gli assi ortogonali disposti da nord ovest verso sud
est, e da nord est verso sud ovest.
Al primitivo villaggio etrusco si era in parte sovrapposta quella nuova
disposizione, continuando probabilmente a sussistere un'autonoma aggregazione di case lungo la direttrice
casentinese. Esistono testimonianze specifiche ancora oggi osservabili dell'impianto urbano etrusco
romano; fra queste l'asse costituito dall'odierna via Pellicceria - via Fontanelle e quello di via Colcitrone - via de'
Pescioni, che mostrano la compresenza e soprattutto l'integrazione della città etrusca con quella
romana.
Oltre ai monumenti maggiori rinvenuti, testimoniati dagli imponenti resti dell'anfiteatro a sud e del teatro a
nord, nei pressi della Fortezza, la presenza romana vive in una serie di reperti,
colonne, targhe, corniciami disseminati e variamente reimpiegati nelle dimore e negli edifici successivi ancor oggi visibili in fregio alle cortine di case e
palazzi. Di particolare interesse i ritrovamenti di parti basamentali in travertino e pietra sedimentaria appartenute a ville
patrizie, di cisterne laterizie, di bozze lapidee ciclopiche di mura, ma anche residuali compagini murarie in
cotto, quali, ad esempio, i pochi resti attestanti l'andamento della cosiddetta
"terza cerchia" d'epoca imperiale, che, unitamente agli amplissimi corredi
ceramici, costituiscono un patrimonio quanto mai ricco ed eloquente circa le fortune sociali vissute dalla città fino alla crisi dell'Impero
romano.
Se scarsi sono i dati archeologici dell'abitato, più consistenti sono invece le tracce dei numerosi ed importanti santuari che ospitavano celebri ex
voto, quali la famosa Chimera in bronzo ed il cratere Euphronios, oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze, ed i cui edifici erano ornati da terracotte di grande rilievo
estetico, dovute ad un'affermata scuola coroplastica locale (piazza San Jacopo, via Roma, etc.). All'area
urbana, circondata da una cinta di grandi blocchi di pietra, faceva riscontro l'ampia necropoli di Poggio Sole, formatasi nel VI sec.
a.C. ed utilizzata fino all'età romana.
Della notevole prosperità economica di cui Arezzo godette per tutta l'età ellenistica e la successiva età romana sono indizio i complessi monumentali quale quello di San
Cornelio-Castelsecco, imponente santuario extraurbano, forse del II sec. a.C., che ricevette più tardi un'imponente sistemazione scenografica con la presenza di un binomio
teatro-tempio, su modello degli analoghi santuari laziali. Entrata nell'orbita di Roma e divenuta
municipium, era dotata di grandi edifici pubblici, come il complesso delle terme e del
teatro, posto nei pressi della Fortezza, e il Foro, che doveva verosimilmente trovarsi in un'area compresa tra Porta Crucifera e piazza Vasari, mentre varie zone residenziali sono state recentemente individuate in piazza Vasari, via
Albergotti, via dei Pescioni, piazza Colcitrone, San Niccolò, via Cesalpino, etc.
Nel I sec. d.C., epoca del massimo splendore della città per il fiorire dell'industria di ceramica
'sigillata', i cui splendidi esemplari possono essere ammirati nel Museo Archeologico
'Gaio Cilnio Mecenate', Arezzo continuò ad espandersi fino alle pendici delle colline di San Pietro e San Donato
(aree precedentemente occupate da sepolcreti ed officine) ed ebbe come limite estremo le vie Crispi e
Guadagnoli, dove furono eretti, nel II sec. d.C., un ninfeo e l'anfiteatro, che oggi accoglie il Museo
Archeologico.
Situato nella zona meridionale della "città murata", è accessibile da Via Margheritone e da Via
F.Crispi. Realizzato tra la fine del I e l'inizio del II sec. d.C. con blocchi in
arenaria, laterizi e marmi, presenta una forma ellittica, a due ordini di
gradinate. L'asse maggiore misura m. 121 e il minore di 68; la capienza
raggiungeva, presumibilmente, gli 8-10 mila spettatori.
Purtroppo è stato ripetutamente rimaneggiato tanto da servire da cava di pietre e di altro materiale sia per la costruzione della chiesa e del
convento di San Bernardo nel XVI sec., oggi sede del Museo Archeologico, sia per innalzare le mura medicee e ampliare il Seminario alla fine del
Settecento, quindi è stato parzialmente interrato. Tra i resti è visibile parte della platea con intorno pochi ruderi degli
ambulacri, pittorescamente incorniciati da pini e cipressi.
La necropoli più antica di Arezzo si trovava a sud-est della città e occupava il Poggio del Sole; le tombe a fossa risalgono alla prima metà del VI secolo
a.C. e contenevano buccheri e, nel periodo tardo-arcaico, anche ceramica a figure nere di produzione etrusca e
attica, gioielleria, ecc. In genere i cippi tombali sono emisferici e a base
rotonda. I cippi funerari, così come lo stile dei più antichi bronzetti, farebbero individuare in Chiusi e Volterra i centri principali di maggiore contribuzione alla formazione della cultura locale. All'inizio dell'età
Ellenistica, in rapporto al notevole incremento della città e della sua
popolazione, anche il numero delle tombe aumenta in misura considerevole. I riti dell'inumazione e dell'incinerazione risultano avere
coesistito.
Il Museo è intitolato a Gaio Cilnio Mecenate e ha come sede l'ex monastero di S. Bernardo, edificio pregevole che sorge sui resti dell'anfiteatro romano
(metà del II secolo d.C.) le cui volte sono visibili al primo piano. Il museo si aprì nel 1823 come raccolta di
"Storia naturale e Antichità" e si è accresciuto nel tempo, sia con l'acquisizione di varie
raccolte, poi confluite nelle raccolte della Fraternita dei Laici, che con i notevoli apporti degli scavi ottocenteschi e
recenti. Divenuto statale nel 1973, è articolato in 26 sale, ed è stato di recente completamente
rinnovato.
Il piano terreno è ordinato topograficamente, mentre in quello superiore si trovano le sezioni speciali (paleontologia, preistoria, numismatica) e le singole collezioni appartenute a cittadini aretini (Bacci, Gamurrini, Funghini, Ceccatelli). Tra i reperti più significativi della sezione etrusca, si distinguono i preziosi gioielli della necropoli di Poggio del Sole, un'imponente decorazione frontonale policroma, di notevole resa plastica con scene di combattimento, da Piazza S. Jacopo (480 a.C.), una serie di interessanti teste-ritratto e busti votivi da via della Società Operaia (II-I a.C.), nonché i reperti del grandioso santuario di Castellsecco (lastre decorative, un altare in pietra e statuette votive di bambini in fasce), un ciottolo iscritto per la divinazione e il quinipodium, un esemplare monetale di notevoli dimensioni di cui sono noti solo due esemplari al mondo. Di risonanza universale sono inoltre il magnifico cratere attico con Amazzonomachia, capolavoro del ceramografo Euphronios (510 - 500) e la celeberrima anfora da Casalta con il ratto di Ippodamia, della scuola del pittore di Meidias (420 - 410).
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